Le parole sono finestre (o sono muri)
Marshall B. Rosenberg
01. Supera la Comunicazione Alienante per Riconnetterti alla Benevolenza Naturale
Immagina per un istante che la tua natura più profonda, il tuo stato originale, sia quello di una sorgente d'acqua limpida, pronta a donare e ricevere con gioia e spontaneità. Marshall B. Rosenberg parte proprio da questa convinzione: dentro ognuno di noi risiede un "impulso del cuore" ❤️, un desiderio innato di benevolenza. Se questo è vero, allora la domanda che sorge spontanea è: perché il mondo è così pieno di conflitti, incomprensioni e violenza, sia essa manifesta o sottile? La risposta che il libro ci offre è che, nel corso della nostra vita, abbiamo imparato a parlare e pensare in modi che ci disconnettono da questa nostra natura compassionevole. Abbiamo adottato una "comunicazione alienante", un linguaggio che, invece di aprire finestre 🪟 tra le persone, costruisce muri 🧱. Pensa alla potente metafora offerta da Arun Gandhi nella prefazione: suo nonno, il Mahatma Gandhi, gli fece disegnare un "albero genealogico della violenza". Quest'albero non aveva solo i rami evidenti della violenza "fisica" (guerre, percosse, omicidi), ma anche quelli, ben più fitti e insidiosi, della violenza "passiva": quella che si annida nelle nostre parole, nei nostri giudizi, nel modo in cui umiliamo, incolpiamo o mettiamo a tacere gli altri. È proprio questa violenza passiva, spiega Gandhi, che "alimenta il fuoco della violenza fisica" 🔥. Spegnere le fiamme senza occuparsi del combustibile è un'impresa destinata a fallire. Questo capitolo si concentra proprio su quel combustibile: le abitudini linguistiche e mentali che ci allontanano dalla nostra benevolenza. La forma più comune di questa comunicazione alienante è l'uso dei giudizi moralistici. È un linguaggio che ci intrappola in un mondo polarizzato tra giusto e sbagliato, buono e cattivo. Se il tuo collega non rispetta una scadenza, il giudizio automatico è: "È un irresponsabile". Se il tuo partner desidera più attenzioni di quelle che gli dai, diventa "appiccicoso ed esigente". Questo modo di pensare, ci spiega Rosenberg, è una "tragica espressione dei nostri bisogni". Tragica perché, invece di comunicare il nostro bisogno (ad esempio, "Ho bisogno di affidabilità" o "Ho bisogno di spazio"), lanciamo un'accusa. E chi viene accusato cosa fa? Si difende o contrattacca. Il risultato è un muro sempre più alto. Come scrive il poeta Rumi, “Al di là delle nozioni di bene e male, c'è un campo. È lì che ti troverò”. La comunicazione alienante ci impedisce persino di cercare quel campo. Un'altra trappola linguistica è il fare continui confronti. È un modo infallibile per avvelenare la nostra felicità. Il libro cita con umorismo il "Manuale del perfetto masochista", che suggerisce di confrontare le proprie misure con quelle di un fotomodello o i propri successi con quelli di Mozart a 12 anni. L'esito è scontato: ci sentiamo inadeguati, frustrati, infelici 😩. Questo gioco al ribasso non nutre alcuna benevolenza, né verso noi stessi né verso gli altri. Infine, una delle forme più pericolose di comunicazione alienante è il negare la nostra responsabilità. Lo facciamo ogni volta che usiamo un linguaggio che implica una mancanza di scelta. Frasi come "Devo andare a lavoro" o "Mi hai fatto arrabbiare" oscurano la nostra responsabilità personale. Il primo nasconde la scelta che facciamo (magari per mantenere il posto, per senso di responsabilità, ecc.), il secondo attribuisce all'altro il potere sui nostri sentimenti. L'esempio storico di Adolf Eichmann, che si giustificava parlando di "ordini superiori" e usando un "linguaggio burocratico", ci mostra dove può condurre, agli estremi, questa abdicazione della responsabilità. Quando non siamo consapevoli di essere responsabili dei nostri pensieri, sentimenti e azioni, diventiamo, come scrive Georges Bernanos, "docili", e questa docilità è molto più pericolosa della ribellione. Sostituire un "devo" con un "scelgo di... perché voglio..." è un primo, potentissimo passo per riappropriarsi della propria vita. Quando una madre smette di dire "Devo cucinare" e ammette "Scelgo di cucinare perché voglio che la mia famiglia mangi bene", il suo intero mondo interiore cambia, liberandola da un peso che si era autoimposta. Questo linguaggio, che attribuisce la colpa, esige, giudica e nega la scelta, è il pilastro di una società basata sul dominio, non sulla connessione e la compassione.
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